Nel labirinto

Labirinto

Imparare a orientarsi a Venezia non è così spaventosamente difficile come può sembrare a chi ci arriva da fuori. E’ però vero che anche chi, come me, ci vive da 35 anni non può dire di conoscere allo stesso modo tutti i più remoti angoli della città, anche se è naturale che col tempo si acquisisca quella sicurezza che ti fa cavare in fretta d’impaccio anche quando non sai la strada o ne prendi una sbagliata. Ci metti poco a trovare un punto di riferimento e a rimetterti sulla retta via.
Questo non può succedere naturalmente al turista, che è capace di imbarcarsi in un viaggio di 40 minuti fra attese e navigazione su un intasatissimo vaporetto per andare da San Marco a Rialto senza accorgersi che tagliando per le Mercerie potrebbe arrivarci a piedi in meno di dieci minuti. Questo è nell’ordine delle cose, io a Shangai farei sicuramente sciocchezze peggiori.
La sera tardi capita spessissimo di imbattersi in turisti appena arrivati, persi in qualche intrico di calli trascinandosi monumentali valigie, alla ricerca di un albergo per il quale hanno solo un indirizzo che non può dire assolutamente nulla. Sono stati sicuramente un po’ sventati nel prendere magari un volo a tarda sera senza essersi neppure premurati di prendere informazioni su cosa fare una volta sbarcati. In questi casi, però, una buona dose di responsabilità va anche agli ospiti veneziani, che decisamente non brillano per senso dell’accoglienza. Ora, un indirizzo a Venezia è formato da due parole: il nome del sestiere e il numero civico, e basta. Tutto quello che sta, per fare un esempio, dai Giardini della Biennale fino quasi alle spalle di San Marco ha per indirizzo Castello più un numero che va da uno a, credo, seimila e rotti. Senza possedere uno stradario è impossibile sapere dove sta, che so io, Castello 4716.
Non molto indicativo è nemmeno il nome della calle o del campo, sia perché nessuno li conosce tutti, sia perché assai spesso questi nomi si ripetono: di calle de la malvasia, del pestrin o del piovan ce ne sono a bizzeffe. Sarebbe il minimo, quindi, che un albergo o un B&B fornissero istruzioni dettagliate sul come essere raggiunti, indicando la più vicina fermata del vaporetto e uno o due punti significativi di riferimento nelle vicinanze. Ma queste cose le sanno fare gli inglesi, non noi. E così io stesso mi sono trovato più volte a fare da pronto soccorso: ricordo una coppia di fidanzati russi, era quasi mezzanotte e lei aveva, oltre alla sua valigia grande quanto il mio frigorifero, un paio di tacchi che nemmeno Amanda Lear ai tempi d’oro. Vagavano nella città deserta dalle parti di San Lorenzo, allo stremo delle forze e sull’orlo del collasso di nervi;  tutto quello che avevano era una stampa della prenotazione, che recava il nome dell’hotel e un inutile “Castello nonsocosa”. Niente telefono o altre indicazioni. Mi si sono aggrappati come Maddalena ai polpacci di Gesù, ma io non avevo mai sentito nominare quell’albergo e non avevo idea di dove potesse essere quell’indirizzo. E così me li sono presi in carico, abbiamo vagato assieme per un po’ fino a che ho fatto l’unica cosa possibile: sono entrato in un altro albergo e con l’aiuto di un concierge per il quale proporrei l’immediata beatificazione siamo riusciti a identificare l’hotel dei russi, che stava nemmeno tanto lontano da lì imbucato in una calletta nella quale non ero mai entrato in vita mia.
Episodi come questi succedono di continuo. Certo, quasi tutti i turisti arrivano impreparati: pensano che a San Marco ci arrivi l’autobus e si chiedono a che ora apre Murano, o sono convinti che il Dorsoduro che vedono nell’indirizzo sia il nome di una via e non di un terzo buono dell’intera città. Questi sono gli effetti dell'(in)cultura di massa. Però i turisti sono anche vittime di un sistema nel quale rivestono il ruolo dei limoni da spremere, non certo quello dei clienti da soddisfare.
Un’altra comitiva di disperati che misi in salvo una sera di qualche anno fa era tornata da una gita a Torcello. Non era particolarmente tardi: era però inverno, era freddo e avevano dei bambini che non ce la facevano più e dormivano seduti sulle spalle dei papà. Era successo che il gruppo che si era imbarcato ore prima in qualche punto della Riva degli Schiavoni, vicino a San Marco, al rientro per risparmiare tempo e nafta era stato fatto scendere alle Fondamente Nove e mollato là nel mezzo del niente, con due vaghe indicazioni su come raggiungere San Marco “in due minuti”. Vagavano nel buio da quasi un’ora e non ebbi il coraggio di dir loro che non avevano fatto più di duecento metri. Quella volta cambiai la mia strada e li portai a destinazione, non volevo avere sulla coscienza le sorti di quei due o tre piccoli innocenti, e men che meno quelle dei loro papà e delle loro esauste mamme.

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11 risposte a Nel labirinto

  1. ausdemspielberg ha detto:

    Guardi, io personalmente facevo così.
    Mi ero fortunosamente trovato un amico camminatore, amantissimo delle belle arti, il quale dopo un anno di permanenza ne sapeva più di una Guida artistica dell’Ottocento. Bastava dirgli “devo andare a …” e, chiacchierando amabilmente o canticchiando romanze da tenore rossiniano d’agilità, ero condotto a destinazione, o al monumento più vicino alla meta.
    In sua mancanza, mi orientavo con le vetrine dei negozi: al panettiere, a destra, prima del guantaio a sinistra, al ponte dove c’è il negozio di maschere orripilanti svoltare prima a destra e poi a sinistra.
    I guai, ovviamente, iniziavano dopo le 19,00 quando tutti i commercianti chiudevano bottega, le luci si spegnevano, non trovavi più vetrine di riferimento, nè un can d’un boia che ti potesse dare un’ indicazione.
    E’ probabilmente in quei momenti che il mio amore per Venezia è intisichito, e ho ricominciato ad apprezzare l’aria di casa mia.

    • Winckelmann ha detto:

      Panettiere, guantaio, deserto dopo le 19… temo che avrebbe amare sorprese se tornasse oggi in laguna. Ha un che di familiare la sua descrizione di quel suo amico là. Mi sa che l’ho conosciuto anch’io.

  2. gabrilu ha detto:

    Le cose che dici le ho vissute tutte sulla mia pelle, le prime volte che venivo a Venezia. Adesso alcuni trucchi li ho capiti, ma Venezia è un posto dove comunque riesco a perdermi e a non trovare un posto che conosco benissimo e che so benissimo essere nell’arco al massimo di 50 metri…
    Se poi chiedi informazioni a un indigeno… lungi da me voler generalizzare, ma la maggior parte delle volte poi te ne penti di quanti capelli hai in testa e diventi un cultore del “sai che ti dico? Faccio da me!”
    Sacrosanta regola n.1: “mai arrivare di sera!” (ma questo vale a mio parere come regola generale per tutti gli arrivi in una città che non si conosce, specialmente se si hanno bagagli).

    Ed ora, se vogliamo buttarla spudoratamente sul letterario spinto, mi permetto di ricordare che questo “labirinto” ha fornito alcune delle pagine più belle e più profonde dell’ “Albertine disparue” di Proust.
    Tiè! 🙂

    • Winckelmann ha detto:

      Eppure una volta non era così. Bastava assumere un’espressione un po’ esitante davanti a un giro di strada che qualcuno si fermava a chiederti dove dovevi andare. Ma il mondo non è più quello di allora.
      Quanto a Proust, touché. Posso dirti solo quello che a un esame di storia tanto tempo fa sentii dire dall’esaminando al prof: “no, effettivamente i libri non li ho letti, però li ho comprati tutti”. Verrà anche la loro ora (sempre che non arrivi prima la mia).

  3. luigi48 ha detto:

    Grazie per questo bel pezzo. Una brevissima considerazione; il rilancio del nostro Paese deve riprtire dal turismo?Auguri a tutti noi se gli operatori sono della qualità descritta.

    • Winckelmann ha detto:

      La più efficace e sintetica rappresentazione del sistema turistico veneziano la diede, ancora parecchi anni fa, un cartello che stette per qualche tempo appeso alla porta di un negozio un tempo celebre e, ahimè, bellissimo: “si prega di entrare solo se interessati all’acquisto”. Auguri a tutti noi, davvero.

  4. Anifares ha detto:

    Io a Venezia mi oriento con le Chiese e lo stesso consiglio che dico ai miei amici… tante chiese tanti punti di riferimento.

  5. Gabriele ha detto:

    Un post commovente, letteralmente. Io, che ora non abito più a Venezia, non ho mai avuto pietà per gli sprovveduti turisti così tanto bene descritti, tacchi e valigioni compresi – anzi, segretamente godevo nel vederli vagare senza costrutto; ma la chiusa con i bambini esausti sulle spalle dei papà mi ha mosso a pietà, appunto. Giuro che la prossima volta che torno mi darò più da fare, magari anticipando le richieste d’aiuto.

    • Winckelmann ha detto:

      A volte (spesso) fanno saltare i nervi e capita che ci caviamo le nostre piccole soddisfazioni. Come l’altro sabato, quando sui gradini della stazione ho assistito alle complicatissime manovre di due turisti appena arrivati, che impediti da giacconi e valigie hanno speso venti minuti per indossare calzettoni e stivali di gomma. Avevano sentito che c’era acqua alta, peccato che la marea era in discesa da più di due ore e quindi la città era già completamente all’asciutto. Confesso di averglielo perfidamente taciuto.

  6. gabrilu ha detto:

    E se poi si capita in una di quelle sere nebbiosissime in cui non si distingue nemmeno il bordo del canale e si cammina in un’atmosfera da “sento l’orma de’ passi spietati”
    Ah, Venezia, Venezia! L’ultima volte che ci sono stata risale ormai a cinque-sei anni fa… immagino che di cambiamenti ce ne siano stati tanti. I tuoi post, del resto, non mi fanno pensare a cambiamenti in positivo 😦

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