In tre modi muoiono le città: quando le distrugge un nemico spietato […]; quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dei […]; o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi.
L’inizio di Se Venezia muore colpisce dritto al cuore. Cosa se non l’oblio di sé può essere all’origine di una folle corsa verso la distruzione compiuta e lasciata compiere in nome di ideali come la modernità e lo sviluppo, concetti vaghi e transitori utilizzati soprattutto per celare l’obiettivo vero: il guadagno? Salvatore Settis non ha scritto un libro su Venezia, ma ha preso la città e la sua laguna come esempio emblematico e drammatico di una deriva culturale che non conosce confini di stato né di continenti.
L’idea della città come viva narrazione della propria storia, come organismo unico e irripetibile che dovrebbe puntare sulla salvaguardia della propria specificità anziché su una improbabile e livellante omologazione, non fa parte di un sistema mosso esclusivamente dalle ragioni del tornaconto economico. Se, come succede, si intende la città come un semplice guscio, gli abitanti del quale sono puri accidenti, si accetta con indifferenza che essi siano cacciati altrove per lasciar posto a chi garantisce guadagni infinitamente maggiori, sia quando compra una casa che userà solo pochi giorni l’anno sia quando affitta a peso d’oro, magari in nero, un appartamento per pochi giorni. Di null’altro sembra più capace Venezia che di generare bed & breakfast, ristoranti e alberghi, agenzie immobiliari, vendere prodotti “tipici” (dai vetri alle maschere), allestire Carnevali fasulli e darsi, malinconico belletto, un’aria di perpetua festa paesana.
Il disinteresse per la conoscenza apre la strada alla più stolida mancanza di rispetto: i progetti per torri, grattacieli, luna park ammantati di inconsistenti patine pseudoculturali, non sono il segno che la nostra epoca dovrebbe lasciare su Venezia come tutte le precedenti hanno fatto, ma sono piuttosto palesi e squallide dimostrazioni di cinismo e arroganza, mosse unicamente dalla voglia di fare soldi. E non vale pensare che né l’orrendo Palais Lumiére del finto mecenate Pierre Cardin né l’ignobile parco giochi alla sacca di San Biagio si faranno: se queste iniziative si sono fermate, quella della trasformazione del Fontego dei Tedeschi in centro commerciale è in corso. Dopo il patetico fallimento dell’archistar Santiago Calatrava (l’unica cosa che funziona del suo ponte è l’unica che lui non ha deciso, la posizione) attendiamo gli esiti del suo collega Rem Kolhaas.
Si badi bene che quella che Settis propugna non è l’idea della mummificazione della città antica. Al contrario, egli sa benissimo che non può esistere città che non muta continuamente nel suo trascorrere attraverso la storia. Questa trasformazione, però, deve avvenire nel rispetto della specificità e non in nome dell’appiattimento: la città è come un organismo vivente, cresce mutando e restando se stessa, secondo – noi oggi diremmo – un codice genetico iscritto nella sua stessa storia, nell’unicità della sua forma urbis.
Travolta da masse di frettolosi e disinteressati visitatori molto superiori a quelle che sarebbe in grado di assorbire, considerata niente più che un pittoresco fondale da dare in pasto a chi arriva a bordo dei mastodonti che ci si ostina con ogni mezzo a far transitare in una laguna sempre più sventrata e sconvolta nei suoi delicatissimi equilibri, svenduta a pezzi per rimpinguare casse comunali esauste, priva di servizi e spopolata ogni giorno di più, è ancora una città Venezia? E’ ancora, per usare una frase di Settis, il luogo deputato della progettazione del futuro dei suoi abitanti?
Toccherà a loro far sì che possa esserlo. Solo se sapranno difendere il proprio diritto alla città, se riusciranno a trovare motivazioni e forza sufficienti potranno sconfiggere il perverso meccanismo speculativo che ha trasformato la Venezia che ancora in molti ricordiamo in una patetica e invivibile imitazione di Disneyland.
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It’s so frightening to think of the future of this precious city and its inhabitants.
Cosa vengo a fare a Venezia se lo stesso articolo venduto in franchising lo posso trovare anche in piazza Saffi a Forli’?
Gran bel post, anche se pare sempre più un desolato e triste vox clamans in deserto, un deserto culturale, politico, sociale. E così non solo diventa sempre più duro vivere a Venezia, ma anche sempre più triste.